Dipendente, freelance o entrambi?

Matteo Sola
6 min readJul 9, 2020

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Il lavoro fluido tra freelance, slash workers e skills multiple

“Il mondo del lavoro è diventato sempre più liquido, complice una crisi strutturale che non sembra attenuarsi e che si farà sempre più aspra a causa del COVID-19. Crollato il mito del posto fisso, si sgretolano ormai anche i percorsi lavorativi lineari”, scrive Amalia Verzola parlando di “Slash workers per Forbes.

Chi sarebbero? Sono i professionisti che sviluppano vite parallele tra diverse professioni, a volte apparentemente inconciliabili.

Sì, il lavoro è sempre più fluido e i percorsi delle persone sempre meno monolitici, ma andiamo per gradi.

Parliamo dell’apparente contrapposizione tra dipendente e freelance

Come professionista HR, che in azienda ha il compito di attrarre, sviluppare e trattenere talenti (mi ripetono spesso), non di rado mi trovo a toccare il tema del binomio “dipendente / freelance”.

Come trattarli? Cosa riservare ad uno o all'altro? E’ così vero che i secondi non fanno parte dell’ecosistema che gestiamo e dell’employee experience che tentiamo di costruire?

Non solo i freelance sono sempre di più presenti come collaboratori costanti delle nostre aziende o meglio “attorno” a noi, visto che non possiamo considerarli parte integrante della stessa, ma non ne voglio sapere di entrarne a far parte in pianta stabile, convertendosi in dipendenti.

Una persona di talento e dotata di competenze che risultano essere scarse sul mercato (tipico caso delle competenze digitali), se non ha il mito del posto fisso e delle sue garanzie, infatti, non ha nessun interesse a diventare un collaboratore fisso dell’azienda.

Non è difficile capire il perché.

Il freelance può:

  • Dedicarsi quasi solo a ciò che gli interessa e lo appassiona;
  • Conoscere vari settori, aziende e sperimentarsi su tanti campi da gioco diversi, territoriali e culturali, arricchendo le proprie competenze;
  • Evitare di avere un capo e sostituirlo con il cliente (che, per quanto possa essere ingestibile o insoddisfatto e possa scaricarci, può sempre “essere scaricato” a sua volta, a differenza del manager del tuo team);
  • Avere nuovi compagni di viaggio sempre diversi come colleghi a seconda del progetto e/o la possibilità di lavorare da solo se lo preferisce;
  • Godere di un compenso instabile e non garantito, ma potenzialmente in crescita anche molto rapida assieme al brand personale e alla reputazione costruita sul campo portando risultati;
  • Sfrutta un’ampia mobilità territoriale, maggiore flessibilità oraria e la libertà di scelta dei tool da utilizzare nel proprio lavoro ecc

Dalla parte di uno che ama lavorare in azienda, potrei ribattere che un dipendente:

  • Si sente parte (si spera) di una comunità più grande, in cui si condividono valori e mission che contribuisce in parte a creare e a ricreare ogni giorno;
  • Costruisce qualcosa che rimane per sé e per gli altri sul lungo periodo o almeno ci prova, senza quella sensazione amara per cui alla fine di un progetto il freelance dice “io ci ho messo il mio, speriamo che non me lo smontino domani”;
  • Si mette alla prova quotidianamente nella gestione di una complessità diversa, quasi sempre superiore a mio avviso (anche se immagino che non tutti siano d’accordo), perché porta un contributo all’interno di un contesto che ha una sua storia (e le sue resistenze / convinzioni) essendo anche lui parte attiva di questa storia;
  • Costruisce relazioni più stabili in un mondo che può sentire come casa propria (sempre si spera);
  • Ha maggiori certezze economiche, perché il compenso è mediamente più basso, anche se dipende molto dal ruolo e dal livello, ma è più stabile e nel tempo non può che aumentare leggermente, salvo grossi imprevisti (ti licenziano, cosa in realtà non così facile) e profonde crisi a livello aziendale (capita spesso, ok, ma non proprio tutti i giorni). E quando cambia azienda, solitamente sfrutta l’esperienza acquisita per rivendersi a più di prima;
  • Ha molte altre tutele, perché il sistema in primis giuridico a livello di Stato privilegia il lavoro dipendente (che sia giusto o sbagliato) e così l’azienda, di fatto, mettendo a disposizione una serie di risorse che per scelta più o meno obbligata possono andare solo ai dipendenti.

Ora, sicuramente i punti a favore, così come quelli contrari che nemmeno ho citato, sono molti di più per entrambe le scelte di vita e di lavoro, ma il punto credo sia un altro:

E’ davvero così necessario oggi scegliere?

In altre parole, dipendente o freelance, così come carriera da specialista o da manager o da consulente, sono ancora scelte univoche da cui non si può o non si dovrebbe tornare indietro?

In passato si sarebbe detto di sì, ma

Oggi vedo sempre più persone saltare da una parte all’altra della barricata con una certa disinvoltura. Da specialista in azienda a freelance, da manager di una corporate a consulente a startupper e altro ancora.

La linearità paga in termini di carriera? E’ o deve essere una vocazione?

Io credo di no.

E faccio un altro esempio.

Quando ho iniziato a lavorare, i colleghi HR senior mi dicevano che una buona carriera non deve essere caratterizzata da più di 3/4 passaggi aziendali nell’arco dell’intera vita lavorativa. Se ne fai di più, diventa sospetto…

Mi sembra evidente che oggi tutto questo sia tramontato, se è vero che la maggior parte dei colleghi della mia generazione hanno già all’attivo 3 o più esperienze aziendali diverse in meno di 10 anni di lavoro, me incluso. E mi pare che non sia un problema per quasi nessuno là fuori, sul mercato del lavoro.

Crisi del lavoro o evoluzione?

“Trasformazione digitale, obsolescenza delle competenze, sovrapposizione sempre più problematica di lavoro e vita personale, nomadismo lavorativo e smart working. La crisi del lavoro è una crisi multipla, e in essa convergono molti elementi da tenere in considerazione”, si legge sempre nell’articolo di Forbes.

E nel mentre, un certo mito del freelance e il fascino di una vita “senza confini e limiti”, pienamente libera, per alcuni è sempre più forte. Tanto da decidere di lasciare carriere stabili e stipendi garantiti per “diventare imprenditori di sé stessi”.

C’è chi, addirittura, sopra al concetto di freelance ci ha creato un corso: si chiama Jacopo Romei, un maestro della costruzione di una vita professionale da equilibrista tra consulenza, formazione, imprenditoria, viaggi, barche a vela e alianti. Se sei bravo (nel suo caso forse unico nel tuo genere) e sai gestirti bene è chiaro che vivrai non solo più ricco, ma anche con più tempo libero e soddisfazioni di noi che aspettiamo le “ferie comandate”.

La crisi di cui si parla per me è una grande opportunità di evoluzione per tutti.

Il COVID ha liberato diverse energie represse e finalmente anche i nomadi digitali esultano, perché si sentono più vicini a tutti gli altri grazie allo smart working, che ora è diventato south working.

Con buona pace delle fibrillazioni del management vecchio stampo che non riesce più a controllare le persone, dei sindaci nostalgici e dei ristoratori “da ticket restaurant”, che protestano per il calo di introiti (non è ora di cambiare modello di business?).

Che sia la volta in cui mettiamo in atto una vera evoluzione del concetto di lavoro in azienda?

La creazione di un lavoro più libero, più autonomo, più responsabile e più legato ai risultati che alle ore che spendiamo in ufficio. Un lavoro che allenti la separazione concettuale tra freelance e dipendente, almeno in parte.

E poi, oltre al numero crescente dei freelance full time per scelta, che forse un giorno saranno la maggioranza del mercato del lavoro, ci sono loro, gli Slash workers e chi in realtà rimane dipendente, ma al contempo ne fa mille altre.

E io oggi sono uno di questi, tra lavoro in azienda nel team People&Culture per Musement, interventi spot da speaker e formatore per aziende ed università e ruolo di coordinatore scientifico di un master in Digital HR (per l’azienda di cui ero dipendente in precedenza) e via dicendo. Ah e nel tempo libero scrivo.

Il futuro è ibrido

Non è un caso che oggi lo sport nazionale, non solo nelle startup, sia quello di attribuirsi e inventarsi il job title più fantasioso ed altisonante del giorno.

La realtà è che i job title ci stanno stretti perché ci sta stretta una dimensione del lavoro in gran parte superata e fondata sull’idea che si debba incasellare la persona entro steccati che non possono e non dovrebbero definirla.

Le domande finali sono: perché lo facciamo? Perché tanti di noi scelgono di diventare freelance o di vivere vite multiple dal work-life balance sempre più difficile?

La mia risposta è che il mondo sia diventato ibrido, fluido, complesso e così anche noi e le nostre professioni. Scegliamo quello che ci appassiona e che ci arricchisce come persone su diversi piani, per lasciare la nostra impronta nel mondo. Ci guida il nostro purpose e non la forma che assume il lavoro. E non vogliamo perdere un’occasione per arricchire le nostre skills a strati multipli.

E sono anche convinto che si rivelerà un vantaggio competitivo, perché

L’antifragilità delle nostre professioni è insita nella capacità di reinventarsi continuamente e di portare valore in molteplici direzioni, aprendo orizzonti sempre diversi e in continua evoluzione.

Questo si che è anti-COVID.

Allora buon equilibrismo a tutti.

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Matteo Sola

People and Culture / Digital HR — Focused on: Learning & Development, Employee Experience, Agile Management